2023-10-30 Perché il SETI è a mani vuote?

Il programma SETI (Search for Extra-Terrestrial Intelligence) consiste nel rilevare la presenza di civiltà avanzate in altri sistemi stellari. Il SETI ritiene probabile che queste civiltà possano emettere dei segnali elettromagnetici sufficientemente potenti da poter essere rilevati sulla Terra, in particolare nelle frequenze con basso rumore di fondo  galattico come quelle attorno alla banda di 1,4 GHz.
A partire dagli anni 2000 l’ascolto si è diversificato nelle frequenze e nel dominio ottico. Con la fine dei finanziamenti pubblici ha dovuto subentrare il settore privato statunitense e nel 1999 il grande pubblico fu invitato a partecipare con un’iniziativa dell’Università di Berkeley, utilizzando un programma di calcolo scaricabile chiamato SETI@home; la potenza di calcolo totale, all’epoca in cui il numero di utenti raggiunse il picco, superava quella dei migliori supercomputer in funzione al mondo.

Per l’analisi dello spettro elettromagnetico intorno a 1,4 GHz, SETI@home ha approfittato dell’enorme potenza di calcolo di milioni di schede grafiche NVIDIA e sulle migliaia di unità di calcolo CUDA presenti nelle loro GPU, che quindi superavano di gran lunga la potenza dei processori CPU Intel o AMD.  

SETI@home, inclusa la sua versione sulla piattaforma scientifica BOINC, ha analizzato i dati del radiotelescopio di Arecibo per più di un decennio senza risultati definitivi. Prima del suo abbandono, tuttavia, identificò diversi segnali candidati che però non si ripeterono abbastanza frequentemente da poter essere considerati prova convincente della presenza di una civiltà extraterrestre. Storicamente, il primo segnale candidato è stato il potente segnale WOW! catturato nel 1977 per 72 secondi dal radiotelescopio Big Ear.

Il protocollo SETI richiede, infatti, che un segnale acquisito non sia solo a banda molto stretta e quindi di natura artificiale, ma anche rilevato da diversi radiotelescopi al fine di eliminare falsi candidati dovuti all’attività umana, in particolare satellitare o militare. 

L’inquinamento dello spettro elettromagnetico è diventato un grosso problema per i programmi SETI, in particolare dopo la messa in servizio di Starlink da parte di Elon Musk. Inoltre, il SETI non osserva tutte le bande di frequenza 24 ore su 24, né tutte le direzioni possibili e quindi la probabilità di non rilevare i segnali extraterrestri è piuttosto importante. Si spera che i progressi tecnologici e lo sviluppo di algoritmi di intelligenza artificiale (IA) possano aumentare le possibilità di rilevamento di segnali ripetitivi e distanziati nel tempo, anche esaminando i vecchi dati archiviati.

Il paradosso di Fermi è perfettamente illustrato dal SETI che, nonostante decenni di ricerca sullo spettro delle radiofrequenze, non è riuscita a rivelare la presenza di civiltà extraterrestri o qualsiasi segno di tecnologia avanzata. Questo paradosso postula che, dato che eventuali civiltà avanzate sarebbero potute apparire milioni di anni fa, avrebbero avuto tutto il tempo per colonizzare l’intero universo; di conseguenza, la loro “non-presenza”, anche sulla terra, tende a dimostrare la loro “non-esistenza”. («Se l’Universo e la nostra galassia pullulano di civiltà sviluppate, dove sono tutte quante?»)

Immagine di Peter Schmidt per Pixabay

La riservatezza stellare è vantaggiosa?

Robin Hanson, uno degli esperti in questa ricerca, ha recentemente provato a spiegare questa mancanza di risultati con la cosiddetta teoria dei “grabby aliens”, che può essere tradotto come “alieni aggressivi”; si tratterebbe quindi di una minaccia globale dovuta a specie stellari potenzialmente predatrici e molto invasive, con la conseguenza che la maggior parte delle civiltà rimarrebbe molto riservata per non mettersi in pericolo.

In precedenza Hanson aveva cercato di spiegare il paradosso di Fermi con l’esistenza di numerosi grandi filtri che impediscono la facile comparsa della vita, che porti poi alle civiltà avanzate, nonché la loro sopravvivenza a lungo termine. Molti eventi potrebbero esserne la causa: autodistruzione da parte di armi nucleari, radiazioni di supernova, comparsa di condizioni climatiche estreme sul pianeta d’origine, impatti vicini alla Terra che innescano violente eruzioni vulcaniche così come improvvise glaciazioni.  

Una stella su cinque ha un pianeta nella sua zona abitabile, ma questa zona si sposta gradualmente, perché le sue reazioni nucleari e quindi il calore emesso, variano con l’invecchiamento della stella. 

In molti casi si può considerare che il degrado della biosfera originaria possa spingere le civiltà a esplorare seriamente, con sonde interplanetarie, il loro ambiente stellare più prossimo; in questo modo potrebbero consentire la migrazione e la salvaguardia delle loro specie su diversi pianeti, compatibili con le loro caratteristiche biologiche. Una civiltà avanzata potrebbe rilevare la fotosintesi esistente sulla Terra da considerevoli distanze stellari e inserirla in una lista di pianeti candidati da esplorare con le sonde, ma non percepirebbe la nostra abituale attività nello spettro elettromagnetico oltre i cento anni luce, perché diventerebbe troppo debole e non rilevabile.

Dato che la vita biologica evoluta non è facile da preservare per viaggi spaziali molto lunghi, è molto probabile che il compito di selezione dei pianeti candidati possa essere effettuato da sonde robotizzate, dotate di intelligenza artificiale, in grado di ripararsi autonomamente o addirittura di riprodursi, come ipotizzato dal concetto del fisico John Von Neumann. Potrebbero anche valutare, con discrezione, l’eventuale aggressività delle civiltà rilevate e, dopo un periodo di osservazione sufficiente, intraprendere il viaggio e quindi stabilire un contatto fisico tra intelligenze biologiche pacifiche e della stessa sensibilità emotiva.

Questa possibilità sarà condizionata da un minimo di compatibilità dell’ambiente fisico (pressione, differenze di gravità, composizione delle atmosfere, rischi biologici, trasmissione di virus, e via dicendo). L’alternativa è ridurre il contatto utilizzando una IA avanzata in grado di comprendere nuovi linguaggi, gesti o addirittura presentarsi con apparenze che non inducano reazioni di rifiuto o ostilità. 

La comunicazione, anche su scala umana e tra persone simili, a volte si scontra rapidamente con una serie di errori di interpretazione ed eccessive differenze culturali; da qui la ridotta efficacia di un simile approccio. 

L’attuale IA sulla Terra non è dotata di una vera e propria intelligenza, poiché è costituita da algoritmi ottimizzati per determinati compiti specifici e ripetitivi, compreso l’apprendimento. 

La comunicazione tra alcune forme di vita intelligenti potrebbe tuttavia essere problematica, perché limitata dalla coscienza e dalla ragione, sviluppate dall’evoluzione e dagli ambienti estremi a cui si sono adattate. Potrebbe anche darsi che, a lungo termine, la vita biologica risulti troppo fragile e che non possa adattarsi ad ambienti molto diversi; ciò comporterebbe che l’espansione stellare delle civiltà sia in gran parte dovuta alla IA, migrando all’interno delle sonde Von Neumann, che non temono gli ambienti estremi.

Il nostro Universo potrebbe essere costituito da una moltitudine di civiltà biologiche che spesso rimangono nella loro biosfera originaria, incapaci di comprendere le IA che esplorano i mondi, ma non hanno alcun obiettivo di comunicare; inoltre, queste IA potrebbero non avere come “direttiva primaria” le forme complesse di comunicazione, né la capacità di impegnarsi in un dialogo avanzato.

L’ipotesi di Hart-Tipler postula che il mancato rilevamento di tali sonde tipo Von Neumann nel nostro ambiente rafforzi l’ipotesi di un numero molto limitato di civiltà nella Via Lattea. Tuttavia l’umanità non è, probabilmente, la prima civiltà ad apparire nella nostra galassia, data l’età della Via Lattea, che è composta principalmente da stelle molto più vecchie del nostro sole. Dovremmo quindi, da un punto di vista statistico, considerare l’esistenza di un ecosistema di civiltà molto più antiche e avanzate della nostra. 

Sembrerebbe anche realistico postulare l’esistenza di una categoria maggioritaria di civiltà piuttosto riservate e di un’altra più espansionistica e più scientificamente avanzata le cui impronte tecnologiche sarebbero molto più visibili. L’attività della nostra civiltà sulla Terra, ad esempio, rimane molto difficile da rilevare, anche nel nostro vicino ambiente stellare.

I ricercatori del SETI hanno cercato di stimare la rapidità con cui le civiltà altamente espansioniste sarebbero diventate visibili in tutta la loro galassia, nonché il loro numero relativo rispetto a quelle che hanno scelto di essere molto più riservate.

Immagine di PublicDomainPictures per Pixabay

La conquista

Si è stimato che il tempo necessario affinché una civiltà tecnologica appaia su un pianeta con molte condizioni favorevoli sia di quattro miliardi di anni. Altri ricercatori sono favorevoli all’ipotesi che la maggior parte delle civiltà veramente avanzate potrebbe apparire molto più tardi, nonostante l’età media delle generazioni di stelle nella Via Lattea che producono metalli pesanti e tutti i componenti presenti sulla Terra. 

Secondo alcune valutazioni recenti, solo una galassia su un milione conterrebbe una civiltà “aggressiva e rumorosa”, perché molto più avanzata di tutte le altre e può quindi svilupparsi rapidamente senza opposizione su milioni di sistemi solari. Se una tale civiltà emergesse presto in una galassia, probabilmente non permetterebbe ad altre di prosperare  e apparirebbero aree molto vaste sotto il suo controllo. Più precisamente potrebbe esistere un limite temporale oltre il quale le nuove civiltà non riuscirebbero più ad espandersi, perché ciò gli verrebbe impedito da civiltà più antiche e molto superiori. Si ritiene plausibile che nell’arco di circa dieci miliardi di anni l’intero spazio della nostra galassia possa essere completamente colonizzato.  

Una simulazione suggerisce che, se anche una sola civiltà su 1.000 (o 10.000) diventasse “aggressiva e rumorosa”, la colonizzazione finale delle grandi galassie potrebbe stabilizzarsi intorno alle cento civiltà principali; ognuna di loro avrebbe quindi assorbito le altre civiltà meno potenti o avrebbe sfruttato, con la minaccia, le loro risorse per la sua la produzione industriale, come nella fortunata serie di film di fantascienza “Star Wars”.

Aggiustando alcuni parametri di simulazione, è possibile che il 50% della nostra galassia sia già sotto il controllo di grandi civiltà e che sia solo il nostro basso livello tecnologico a non permetterci di rilevarle. Questa situazione di semi controllo galattico potrebbe essersi già materializzata in un numero compreso tra 100.000 e 30 milioni di galassie.

I nostri mezzi tecnologici sono ancora molto lontani dal poter rilevare una situazione del genere e potremmo attendere ancora duecento milioni di anni prima di entrare nella sfera di espansione di una di queste civiltà. Una possibile conclusione è che la ricerca SETI, a seconda dell’intervallo di tempo e dei parametri di localizzazione utilizzati, non potrebbe rilevare nulla per migliaia o addirittura milioni di anni. 

Giocando sui parametri della simulazione, in particolare sul tempo necessario per il passaggio dalla vita microbica all’intelligenza evoluta in un contesto di stabilità climatica, si potrebbe immaginare che la nostra galassia non stia ancora ospitando civiltà così avanzate. È anche possibile che, entro quando la vita sarà scomparsa dalla superficie della Terra (pochi milioni di anni), non venga rilevato alcun segnale radio emesso dall’altro lato della galassia; a causa delle enormi distanze stellari infatti, non avrebbe ancora avuto il tempo di raggiungere il nostro pianeta (nonostante la velocità delle onde elettromagnetiche). Tuttavia, con queste distanze, per avere qualche possibilità di essere rilevati, la potenza di trasmissione dovrebbe essere enorme e l’indebolimento dei segnali su lunghe distanze è sempre stato un ostacolo significativo al successo della ricerca SETI.

L’ipotesi degli “alieni aggressivi” ha generato molte critiche, perché implica la presenza di un imperialismo galattico, che potrebbe derivare da un pregiudizio, dovuto al nostro stesso comportamento. Storicamente, l’imperialismo è stato dettato dalla necessità di accesso alle risorse, da concezioni religiose e via dicendo. Tuttavia in un immenso campo stellare, la situazione potrebbe essere differente e assolutamente non confrontabile con l’espansione umana, che sulla Terra è stata ben poco ostacolata. Ora sappiamo che eventi cosmici di rara violenza possono sterilizzare e ripristinare completamente il ciclo della vita in parti significative della galassia.

Immagine di Elias per Pixabay

Il progetto Galileo

Non sono da escludere comportamenti espansivi particolarmente esacerbati da parte di alcune specie, almeno nella fase iniziale del loro sviluppo. Possiamo anche considerare che il desiderio di espansione nel corso di milioni di anni e su enormi distanze percorse potrebbe essere inibito da cambiamenti sociali o evolutivi.

Il comportamento di civiltà non espansionistiche potrebbe evolvere lentamente verso il pacifismo e la scelta di non interferenza; il nostro pianeta potrebbe trovarsi in una zona in cui è attivo solo un sistema di controllo “riservato”, che il controverso fenomeno UAP evoca, a un primo sguardo, abbastanza bene. L’esistenza di questo fenomeno rafforza anche l’ipotesi del viaggio interstellare e dell’espansione interstellare citata; inoltre ci ricorda come la nostra scienza abbia ancora molto da scoprire e comprendere.

Si potrebbe anche dedurre che le iniziative scientifiche, come il progetto Galileo del prof. Avi Loeb dell’Università di Harvard, siano forse molto più adatte – non prendendo di mira lo spazio profondo, ma installando sensori automatizzati nel nostro ambiente sulla Terra – a evidenziare la presenza di civiltà avanzate, rispetto ai numerosi progetti SETI.  Sfortunatamente, l’ostacolo principale a questo tipo di progetti rimane sempre il finanziamento privato e non governativo, perché sebbene le tecnologie delle piattaforme multi sensore siano diventate mature, la loro diffusione su larga scala rimane ancora molto costosa.

Avi Loeb, ad esempio, è riuscito finora a utilizzare solo tre piattaforme di rilevamento con più sensori; nel caso in cui un risultato positivo fosse riconosciuto consensualmente dagli scienziati, il suo autore molto probabilmente potrebbe ricevere il premio Nobel.

Traduzione di Piero Zanaboni

Immagine principale di Michel Bertolotti per Pixabay

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